L'appuntamento con la rubrica Storytelling Chronicles ritorna, ma stavolta c'è un ospite d'eccezione: Norah Martini.
Per Norah è il primo racconto con cui partecipa, il primo di tanti mi auguro perché, non è mistero, adoro la sua penna e sono contenta di averla a bordo e di ospitarla ora e nei prossimi appuntamenti.
Storytelling Chronicles è una Rubrica a cadenza mensile ideata da Lara del blog La Nicchia Letteraria in cui ogni mese i blog partecipanti scrivono un racconto su un tema scelto nel gruppo apposito. La grafica nuova invece è a cura di FedericaIl tema di questo mese prevedeva utilizzare delle parole chiavi e crare un racconto basandosi su certe specifiche ben precise:
Sono tante cose vero? Vediamo Norah come se l'è cavata, ma prima è doveroso lasciare a lei la parola
Ciao a tutte e tutti,
eccomi qui, al mio primo appuntamento per la rubrica Storytelling Chronicles. Lo confesso, sono molto emozionata. Non ho una lunga storia come scrittrice di racconti (nemmeno di romanzi, per la verità), questo è il secondo da quando ho provato a riprendere in mano la penna dopo anni di inattività e sto ancora cercando la mia dimensione. Però amo incastrare cose, sia nella vita reale, sia in quella immaginaria che si trova nella mia mente (che a volte sembra più “vera” dell’altra, immagino possiate capire a cosa mi sto riferendo) e quando Lara ha proposto il tema del mese che capito che era perfetto per il mio debutto.
Ho riso nello scrivere questo racconto, lo giuro, e tutt’ora quando ci ripenso sorrido tra me e me. Ecco, ciò che spero è di trasmettere anche a voi nella lettura un briciolo del divertimento che ho provato io nella scrittura.
Approfitto di questo primo appuntamento per ringraziare tutte le scrittrici del gruppo: condividere con voi questa passione è un privilegio e una fonte di immensa, immensa gioia!
Tanti baci,
Norah
eccomi qui, al mio primo appuntamento per la rubrica Storytelling Chronicles. Lo confesso, sono molto emozionata. Non ho una lunga storia come scrittrice di racconti (nemmeno di romanzi, per la verità), questo è il secondo da quando ho provato a riprendere in mano la penna dopo anni di inattività e sto ancora cercando la mia dimensione. Però amo incastrare cose, sia nella vita reale, sia in quella immaginaria che si trova nella mia mente (che a volte sembra più “vera” dell’altra, immagino possiate capire a cosa mi sto riferendo) e quando Lara ha proposto il tema del mese che capito che era perfetto per il mio debutto.
Ho riso nello scrivere questo racconto, lo giuro, e tutt’ora quando ci ripenso sorrido tra me e me. Ecco, ciò che spero è di trasmettere anche a voi nella lettura un briciolo del divertimento che ho provato io nella scrittura.
Approfitto di questo primo appuntamento per ringraziare tutte le scrittrici del gruppo: condividere con voi questa passione è un privilegio e una fonte di immensa, immensa gioia!
Tanti baci,
Norah
Il capannone
Sono le 10:27 di un tranquillo martedì di fine ottobre, io e Sebastiano siamo entrambi in smart working. Mi trovo in cucina, impegnata in una call, quando squilla il suo telefono.
«Zia Valeria?» Lo sento rispondere dalla camera, in tono vagamente sorpreso.
Non ricordo di aver sentito nominare nessuna “zia Valeria” tra i suoi parenti, ma d’altra parte non ho una memoria così affidabile per i nomi da esserne certa. Sono, però, abbastanza sicura che il papà di Seba non abbia fratelli, mentre la mamma solo una sorella di nome Paola.
«Norah, tu cosa ne pensi?» La domanda della mia collega dall’altra parte dello schermo mi riporta all’ordine. Allontano zia Valeria dalla mente e mi affretto a proseguire la conversazione.
È ormai quasi l’ora della pausa pranzo quando Seba riemerge dalla stanza. Si avvicina a Panda, la nostra cagnolina bianca e nera, per farle una carezzina sulla testa, quasi soprappensiero. «Non indovinerai mai chi mi ha telefonato prima.»
«Zia Valeria?» chiedo, ironica, concentrata su una mail che vorrei concludere prima di staccare a mia volta.
«Già» conferma, ancora incredulo. «Si tratta di una cugina di mia madre, che non è veramente mia zia, ma che chiamo così fin da quando ero piccolo. Un tempo, quando ancora vivevamo tutti in Veneto, ci vedevamo spesso, ora purtroppo i rapporti si sono raffreddati. Complice la distanza, immagino. Zia Valeria e la sua famiglia si sono trasferiti a Broni, a circa un’ora di macchina da Milano.»
«Uhm… E quando sei venuto a vivere a Milano anche tu non hai pensato di riprendere i rapporti?» chiedo, ancora concentrata sulla mail.
«Beh, no.»
Ok, tipica risposta alla Sebastiano. Scuoto il capo, sospirando tra me e me.
«In ogni caso, la cosa incredibile non è tanto “chi” mi ha telefonato, ma “cosa” mi ha detto» aggiunge, mimando con le dita le virgolette per aggiungere enfasi. «Mi vuole regalare una macchina!»
A questo punto capisco che non finirò la mail, perché la frase ha attirato la mia completa attenzione. Chiudo lo schermo del portatile e mi volto a guardarlo con gli occhi sgranati. «Cosa?!»
Le pupille azzurre di Seba brillano quando conferma: «Hai capito bene. Zia Valeria mi ha detto che in famiglia hanno una macchina in ottime condizioni che non usano e che piuttosto che imbarcarsi in compravendite e lunghissimi iter burocratici preferiscono regalarla a me.»
«La gente non reg…»
«L’unica condizione che mi ha posto» mi interrompe, sorvolando sui miei dubbi, «è che sia io a passare a ritirarla sabato mattina, alle 11. Mi ha appena mandato l’indirizzo su Google Maps e, Norah, non provare a tirare fuori qualche logica argomentazione che mi faccia dubitare della veridicità della storia: noi andremo a ritirare quella macchina.»
In effetti dovevo saperlo, zia Valeria ha usato due parole alle quali Seba non avrebbe mai potuto resistere: macchina e gratis. Sospiro di nuovo tra me e me, per poi annuire. Sono abbastanza convinta che nessuno regali niente per niente, ma lui è talmente emozionato che proprio non me la sento di rompere l’idillio. Mi alzo per preparare il pranzo e non riparliamo più della faccenda.
Sabato mattina arriva in un battibaleno. La pioggia sferza Milano e noi alle 9:20 siamo già in macchina (la nostra): Seba alla guida, io al suo fianco e Panda nel bagagliaio a inseguire felice il tergicristallo. Man mano che ci avviciniamo alla posizione indicata, la mia perplessità sale: invece di addentrarci in un centro cittadino, usciti dall’autostrada imbocchiamo una via secondaria che ci porta in aperta campagna. I campi continuano anche mentre il navigatore segna 5 minuti restanti, 4, 3, 2…
Arriviamo poco dopo nello spiazzo di un capannone abbandonato, circondato sulla destra da un terreno agricolo e sulla sinistra da un piccolo bosco di pianura. Fine delle strutture civilizzate. Di Valeria e della sua famiglia nemmeno l’ombra.
Io e Seba ci guardiamo e, finalmente, un principio di perplessità si fa strada anche dentro di lui. Però non dice niente, parcheggia e scende dalla macchina armato di ombrello. Io lo imito, seguendolo nell’esplorazione del perimetro del capannone con Panda al guinzaglio. Trovo la situazione molto strana, ma non sono preoccupata: la nostra cagnolina è una meticcia mezza pitbull e mezza segugio, percepirà eventuali pericoli a chilometri di distanza.
Mentre Seba prova a chiamare sua zia senza successo, giriamo l’ennesimo angolo e ci imbattiamo nell’entrata del capannone, le cui ante metalliche sono spalancate come a darci il benvenuto. All’interno, ben visibile da dove ci troviamo, proprio al centro dell’ampio spazio vuoto e polveroso, si trova una macchina. No, non una macchina qualsiasi: si tratta di una Tesla rosa confetto e persino io che non me ne intendo affatto non ho difficoltà a riconoscerla.
«Una Tesla rosa» scandisce Seba parola per parola, in un crescendo di stupore. «La vedi anche tu, vero?»
Mi viene da ridere per l’assurdità della situazione, ma mi affretto a confermare: «Sì, sì, la vedo, solo che…»
«Non ha senso.»
«Già.»
Restiamo immobili per due minuti buoni, indecisi su come comportarci: entrare o non entrare? Fidarsi o non fidarsi?
«Tu sei sicuro che al telefono fosse proprio tua zia?» Gli chiedo, per scrupolo, perché le truffe sono dietro l’angolo e la gente farebbe di tutto per fregare gli altri. Anche se lasciare incustodita una Tesla nel bel mezzo del nulla mi sembra davvero una strategia poco adatta a una truffa…
Mi lancia un’occhiata risentita. «Certo che era zia Valeria. In ogni caso, cosa potrebbe succedere? Avanti, avviciniamoci.»
Ho visto abbastanza puntate di Criminal Minds da sapere che una risposta c’è e potrebbe non piacergli, ma Panda continua a essere tranquilla e scodinzolante, così mi convinco a seguirlo dentro al capannone. Inoltre, qualsiasi cosa è meglio della pioggia battente che da stamattina non ha smesso un istante di abbattersi su di noi.
Sul parabrezza dell’auto notiamo un biglietto infilato sotto al tergicristallo. Seba lo raccoglie e legge ad alta voce: «Caro Sebino, perdonami se non ho potuto restare per accoglierti. Mi ha chiamato l’inquilino dell’appartamento sotto al nostro, lamentando una perdita di acqua. Sono costretta a tornare a casa. Zio Daniele mi accompagnerà. Purtroppo, il mio telefono si è scaricato mentre cercavo di contattare Luca e lo zio ha dimenticato il suo chissà dove. Prendi pure la macchina, le chiavi sono sul tavolo al piano di sopra, ti chiamo più tardi. Zia Valeria.»
«Luca?»
«Il loro figlio maggiore» spiega, rileggendo la lettera per intero. «Beh, mi sembra una spiegazione ragionevole» conclude, alla fine del lento esame.
Sgrano gli occhi. «A tua zia è morto il telefono e tuo zio l’ha dimenticato “chissà dove”? Dai, non puoi essere serio!»
«Norah, si tratta di una Tesla.»
«Rosa. Rosa è la parola chiave. Tu odi il rosa.»
Simula un’espressione offesa. «Anche tu.»
«Ma cosa c’entra?»
«Niente, proprio come il fatto che la Tesla sia rosa.»
«E va bene» sibilo a denti stretti, sapendo che litigare non servirebbe a nulla, «andiamo a prendere le chiavi. Sappi che mi aspetto di svegliarmi domani mattina con il profumo del mio dolce preferito nel naso: plumcake al cioccolato, rigorosamente preparato da te.»
«Puoi sempre aspettarmi qui.»
Sì, come no. «La prima regola dei film horror è: mai dividersi.»
«Mai dividersi» completa la frase insieme a me e ci sorridiamo. Siamo sempre stati svelti a capirci io e lui.
Prendiamo le polverose scale che si trovano sulla destra. Un tuono che rimbomba in modo sinistro tra le mura sottili del capanno ci accoglie mentre raggiungiamo il primo piano. Le scale affacciano su un lungo corridoio, illuminato da una finestra senza tende posta sul fondo e su cui affacciano quattro porte. Le prime due sono spalancate e le stanze dentro vuote, la terza è socchiusa. Seba la spinge con cautela e per un momento la sorpresa mi paralizza: l’interno è la riproduzione esatta di un salottino ottocentesco ben tenuto e pulito, con tanto di tappeti e chincaglieria varia. Attraverso le tre ampie finestre è ben visibile il bosco che circonda la struttura, sferzato dal vento e dalla pioggia. Ogni due o tre minuti, un nuovo lampo illumina l’ambiente.
«Prendiamo le chiavi e andiamo, va bene?» Non ho paura, Panda è ancora tranquilla, ma… insomma… l’intera situazione è strana e mi dà i brividi.
Anche Seba è sintonizzato sulla mia stessa lunghezza d’onda, perché si affretta a concordare. «Potrebbero essere su quel tavolino» indica il mobile raffinato posto al centro della sala, circondato da tre divanetti sui toni dell’azzurro e verde pastello.
Ci avviciniamo e le chiavi non sono lì, Seba prosegue nella ricerca, mentre a me l’occhio cade su un libro aperto posato su uno dei divanetti. Le pagine sono un collage di vecchi articoli di giornale. Lo afferro e inizio a leggere: «1802. Bambino di nove anni scomparso nel bosco che circonda Villa Rudezio-Veggese durante un temporale. Dopo oltre trentasei ore di ricerche ininterrotte, la polizia lo ha dichiarato morto. Il piccolo C. R. V. si era avventurato tra…»
«Norah, ti prego, ci manca solo questa.»
«Aspetta, è interessante! Il giornale fa un appello ai lettori: tu che stai leggendo questo libro, se vorrai uscire dalla…»
La porta si chiude di scatto, con un rombo sordo che ci paralizza. Panda abbaia, io mi accuccio, strattonandola per attirarla più vicina a me e Seba si precipita alla porta, provando ad aprirla.
«È chiusa a chiave» mormora, sorpreso, dopo svariati tentativi. Si volta a guardarmi, gli occhi azzurri sgranati. «Cos’è che stavi leggendo? L’appello ai lettori.»
Capisco subito a cosa si sta riferendo. Con mani tremanti afferro di nuovo il libro che avevo lasciato cadere a terra e riprendo a leggere: «Se vorrai uscire dalla stanza, dovrai svelare l’enigma che circonda la scomparsa di C. R. V., altrimenti sarai destinato a restare lì per sempre. Buona fortuna, lettore. Il primo indizio è alla portata di chi ha grande fiuto per la ricerca. Oh, andiamo» commento, al termine della lettura, «qualcuno ci sta facendo un gigantesco scherzo. Valeria? Daniele? Siete stati bravi, ma ora apriteci.»
Nessuno risponde e la porta resta chiusa. Un altro tuono rimbomba nell’aria.
Nel frattempo estraggo il telefono dalla borsa solo per scoprire che, ovviamente, dentro al capannone non ha campo.
Mantenendo il sangue freddo, Seba mi si avvicina, prende il libro e rilegge per intero la lettera. «Il primo indizio è alla portata di chi ha fiuto… di cosa starà parlando?»
«In realtà l’indizio è chiaro, ma la vera domanda è: decideremo di dare credito a questa scemenza?» chiedo, sorpresa che lui stia davvero considerando l’ipotesi di seguire le richieste di chi ci ha chiusi qui dentro.
«È davvero così chiaro?»
Mi acciglio. «Perché non sei preoccupato? Siamo soli, chiusi in un capannone, nel bel mezzo del nulla, senza telefoni e nessuno sa che siamo qui.»
«Panda è tranquilla» osserva, stringendosi nelle spalle.
Va bene, su questo non posso dargli torto però… sbuffando la indico. «Chi tra noi ha il miglior fiuto? Se esiste davvero una catena di indizi che ci porterà a svelare questo enigma, beh, per trovare il primo basterà usare il suo naso. Panda: “cerca”» ordino, accompagnandola in giro per la stanza e ripetendo il comando più volte.
Dopo qualche giro trova una pista e mi porta vicino a una cassettiera, sollevata da terra da quattro pioli di una ventina di centimetri. Ciò che ha percepito è chiaramente lì sotto, così porgo il guinzaglio a Seba, ― che per ricompensarla le dà un premietto, ― e mi accuccio. Estraggo da sotto il mobile un pacchettino, sopra cui è posato un ossicino scuro dall’odore curioso, probabilmente un qualcosa per attirare l’attenzione dei cani. Lo scarto e porto alla luce una mappa antica, che dispiego con cura. Non sono mai stata una grande fan della geografia, ma sono abbastanza certa che riproduca il luogo in cui ci troviamo perché è identica a ciò che Google Maps ci ha mostrato poco fa. Al centro della mappa si trova il capannone e da lì parte una serpentina che si inoltra nel bosco. «Se siamo bloccati qui, come faremo a seguire la pista?»
Seba la studia a sua volta. «Un momento… Io quella forma l’ho già vista…» Con Panda si mette di nuovo a girare per la stanza, fino a che non si ferma di fronte a una seconda cassettiera ad angolo. «Ecco, guarda.»
Mi avvicino e noto la stessa serpentina presente sulla mappa, incisa sulla superficie del legno. «Bravo» mi congratulo, affrettandomi ad aprire tutti i cassetti. Nell’ultimo in basso, c’è un indumento bianco tutto bagnato. Reprimendo il ribrezzo, lo afferro con due dita e lo dispiego. Si tratta della camicia da notte di un bambino, nel riconoscibile stile ottocentesco. Lungo il polsino della manica destra, noto delle iniziali. «P. R. V. Se non mi sbaglio, le iniziali del bambino scomparso iniziavano per C…»
Panda riprende a strattonare il guinzaglio, trascinando Seba in direzione di una cassapanca alta a malapena mezzo metro, sul cui coperchio è stato fissato un cuscinetto in tinta con i divani.
Senza più porci domande la assecondiamo. Lui apre il coperchio e io estraggo il contenuto: una fotografia vecchia, dalla cornice finemente decorata. Ritrae una famiglia, composta da padre e madre, due bambini piccoli e un cagnolino che non ha nulla a che fare con Panda. I tratti delle figure sono talmente sbiaditi che è difficile persino associare loro un volto. L’unica cosa abbastanza chiara sono gli abiti dei bambini: indossano delle tuniche corte, piene di bottoni e dal colletto ampio, pantaloni stretti e stivaletti a mezzo polpaccio. L’altezza dei bimbi è identica e anche la pettinatura, per quel che si riesce a capire. Non devono avere molti anni di differenza… Nell’angolo in basso le iniziali R. V. sono vergate in stile raffinato.
Un po’ avvinta dalla situazione mio malgrado, poso la foto sulla cassapanca, torno al centro della sala per consultare il libro e rileggo l’articolo della scomparsa del bambino da cima a fondo. Dopo le informazioni iniziali, il giornalista si è soffermato a lungo sulla storia della famiglia Rudezio-Veggese, sui loro possedimenti, sulle condizioni economiche, quasi come se la notizia della sparizione fosse secondaria rispetto al fatto che un dramma del genere sia toccato a una famiglia così altolocata.
«C. R. V…» rifletto ad alta voce, «quindi la camicia da notte non appartiene al bambino scomparso.» Sfoglio qualche pagina e mi imbatto nell’albero genealogico della dinastia Rudezio-Veggese. Mi avvicino a Seba per condividere con lui la scoperta. «Guarda» indico, «alla fine di questo ramo c’è un tale Cornelio Rudezio-Veggese, fratello di Patrizio Rudezio-Veggese. Sono nati nello stesso anno, significa che dovevano essere gemelli…»
«Tornerebbe rispetto a ciò che si vede nella foto: due bambini praticamente identici, l’uno scomparso, Cornelio, e l’altro a cui apparteneva la camicia da notte con le iniziali, Patrizio.»
Sono perplessa. «Ma cosa ha a che fare Patrizio con la storia della scomparsa di Cornelio? Doveva avere anche lui nove anni quando è accaduto e non ci sono indizi che facciano supporre che siano scomparsi entrambi. Chissà cosa gli è accaduto in seguito, sempre che la storia sia vera e non una qualche bufala architettata da tua zia…»
Un cigolio attira l'attenzione di tutti e tre. Panda drizza orecchie e coda ma, a sorpresa, non abbaia come suo solito (non prende molto bene i rumori improvvisi). Ci voltiamo verso la fonte del rumore, solo per scoprire che dal muro vicino alla cassapanca si sta aprendo una porticina segreta, perfettamente integrata nell’ambiente circostante, tanto che né io né Seba l’avevamo notata. Non sarà più alta di un metro e mezzo e nel vano compare un bambino piccolino, con corti e pettinati capelli grano, una casacca blu scuro con bottoni dorati, da cui spunta un colletto bianco inamidato. I corti pantaloni in tinta sono così aderenti da sembrare leggins e ai piedi indossa stivaletti marroni di buona qualità. Praticamente, lo stesso identico abito del bambino ― anzi, dei bambini, ― della fotografia.
Dopo un minuto intero di silenzio, nel quale io e Seba sembriamo incapaci di reagire, finalmente mi riscuoto. Sfodero il mio sorriso migliore e lo saluto con la mano. «Ciao, io sono Norah e tu sei…?»
Non mi risponde, si limita a fissarmi con quei suoi grandi occhioni nocciola, l’espressione triste e pensierosa.
«Per caso sai dove sono le chiavi della porta?» gli chiedo, in tono incoraggiante. «Oppure possiamo usare il tuo passaggio? Temo che qualche burlone ci abbia chiuso dentro, magari i tuoi genitori. Li andresti a chiamare, per favore?»
Scuote appena il capo, mentre l’espressione si fa ancora più triste. «La verità non risiede negli occhi di chi osserva.»
Una frase strana, soprattutto se pronunciata da un bambino. Ciò mi convince ancora di più del fatto che siamo nel bel mezzo di uno scherzo, di cui anche lui fa parte, perché è chiaro che questa frase gli è stata fatta imparare a memoria da un adulto.
«Scoprirete la verità, signora?» mi incalza lui, iniziando a indietreggiare. «Sono intrappolato qui da così tanto tempo…» Afferra la porta e se la richiude alle spalle.
«Aspetta» imploro, precipitandomi al passaggio e provando invano ad aprirlo. Sbuffo, spazientita. «Basta, mi sono stancata di questa situazione. Valeria, Daniele, aprite!»
Panda mi si avvicina e mi dà una leccatina di solidarietà.
«Dai, risolviamo questo indovinello e usciamo da qui» mi propone Seba. «Ci sono due gemelli, identici in tutto e per tutto. La camicia da notte bagnata appartiene a quello il cui nome inizia per P. che, immaginiamo, sia Patrizio.»
«La scomparsa del bambino, che secondo il giornale è Cornelio, è avvenuta in un giorno di pioggia» aggiungo, seguendolo nel ragionamento.
«E la verità non è negli occhi di chi guarda, forse perché non è possibile distinguere due gemelli identici in tutto e per tutto.»
«Beh, in effetti non lo è… I giornali si devono essere sbagliati: nel 1802 non scomparve Cornelio Rudezio-Veggese, ma Patrizio Rudezio-Veggese.»
«Ecco svelato l’enigma: Cornelio ha continuato a vivere la vita di Patrizio, come se niente fosse, senza mai rivelare la verità.»
La serratura scatta, la porta si spalanca e un ragazzo di una trentina d’anni, con il sorriso sulle labbra, avanza con le braccia spalancate. «Seba, Norah, bravi! Avete completato la prova, sapevo che sareste state le cavie ideali per il mio esperimento.»
«Luca?» esclama Seba, sorpreso.
Luca. Il figlio di Valeria e Daniele, ricordo. In realtà non sono per nulla sorpresa: era chiaro fin dal principio che tutta quella era una gigantesca farsa.
Il giovane dai corti capelli neri e il volto abbronzato mi si avvicina. «Scusami, non mi sono ancora presentato ma, vedi, io so tutto di te: mia mamma ha parlato a lungo con Cristina, la mamma di Seba, nei mesi scorsi, mentre stavamo pianificando il tutto, e lei le ha raccontato molto di te.»
Oooook… Gli stringo la mano tesa, senza sapere bene cosa rispondere. Avrei almeno un milione di domande, ma lascio a Seba gestire la situazione.
«Mia mamma? Mesi?» lo accusa, infatti. «Luca, ti puoi spiegare? Non ci vediamo da dieci anni e all’improvviso… questo?»
Per nulla preoccupato, il ragazzo se la ride. «Venite, mamma e papà sono giù e ci stanno aspettando. Vi spiegheremo tutto, promesso.»
Assecondandolo, lo seguiamo fino all’ingresso del capannone dove zia Valeria e zio Daniele ci accolgono con dei caldi sorrisi. La prima, una signora distinta sulla sessantina che indossa un elegante tailleur rosa in tinta con la Tesla, ci accoglie con l'entusiasmo incontenibile di una bambina; il secondo, un signore di qualche anno più grande che indossa jeans e maglione, ha l’aria leggermente imbarazzata.
«Seba, le foto di Instagram non ti rendono giustizia» lo accoglie Valeria con un sorriso smagliante. «Negli anni sei diventato proprio un bel ragazzo e guarda che occhi… Ancora più azzurri di quelli di tuo nonno, che pure erano notevoli.»
Ecco, ora pure Seba è imbarazzato quanto e forse anche più di Daniele. Si stringe nelle spalle, mi passa il guinzaglio di Panda e si avvicina alla zia per darle due baci sulle guance. Poi mi presenta in modo ufficiale e grazie al cielo i convenevoli finiscono di lì a poco, perché io ho davvero tante, tante ― tante! ― domande per loro.
«Sentite, sono davvero contento di vedervi» esordisce Seba, mosso dal mio stesso desiderio di fare ordine in quell’assurda vicenda. «Però avremmo anche potuto vederci in centro a Milano per prendere un caffè, perché qui?»
I membri della famiglia si guardano l’un l’altro e, com’era prevedibile, è Valeria a prendere il controllo della situazione. «Tua mamma ti ha detto che Luca, dopo la laurea, ha trascorso quattro anni in Corea del Sud? Beh, è tornato circa sei mesi fa con delle idee originali per costruirsi un futuro. Idee imprenditoriali, intendo.»
«Imprenditoriali?» Il tono di Seba è neutro, non lascia intendere niente dell’ironia e dello scetticismo che deve star provando in questo momento.
«Esatto» risponde il diretto interessato che, ora che li vedo vicini, mi sembra identico alla madre. «A Seul sanno come divertirsi, non come qui in Italia. Uno dei metodi più stupefacenti è la creazione di percorsi immersivi in cui sono i partecipanti a dover risolvere il mistero in prima persona, vi immaginate?!»
«Ad esempio come delle escape room?» Chiede Seba, sempre nello stesso tono neutro.
La confusione sulla faccia di Luca è sconcertante. «Come fai a saperlo? Sei stato anche tu in Corea?»
Noto una vena sulla tempia pulsare, ma non perde la calma. «Luca, a Milano ce ne saranno almeno una ventina. Mi stai dicendo che in questi sei mesi da quando sei tornato non ne hai mai sentito parlare? Sono abbastanza certo che ce ne fossero parecchie anche quattro anni fa…»
La sua delusione dura appena qualche secondo. «Va bene, va bene, ma non avete ancora sentito qual è la mia idea: creare delle escape room… a sorpresa… PER PADRONI DI CANI.»
Lo dice proprio così: in un crescendo di emozione che un po’ mi fa intenerire. Né io né Seba riusciamo a produrre una parola di senso compiuto per commentare ciò che abbiamo appena udito.
Capendo di dover intervenire, Valeria si avvicina al figlio e lo abbraccia passandogli un braccio attorno al busto. «Amore mio, ricordati che Seba e Norah sono qui per darci dei feedback sulla trama, non sei curioso di sentire cosa ne pensano?»
Solleva due occhi speranzosi su noi due, annuendo incoraggiante e io so cosa gli dovrei dire, ossia che la sua trama fa acqua da tutte le parti: è troppo semplice, rapida, irreale, senza capo né coda e nemmeno così precisa da un punto di vista storico però… non posso proprio, non ce la faccio a infrangere i sogni di Luca. E nemmeno può Seba, che si limita a bofonchiare un: «Ci sono un paio di dettagli da sistemare» prima di essere colpito da un pensiero che lo fa agitare: «Ma quindi… la Tesla in regalo era solo un pretesto per attirarci qui?»
Mi trattengo a stento dall’alzare gli occhi al cielo. Era ovvio che non avrebbe rinunciato al suo sogno di una macchina gratis, seppur rosa.
«È finta» rivela compiaciuta Valeria, indicando l’oggetto in questione. «Dentro è senza motore; Daniele, apri il cofano e mostra loro l’interno. Luca ha recuperato una vecchia carcassa di auto, l’ha rimessa a nuovo e poi ha fatto realizzare un logo Tesla da attaccarci sopra.»
«Solo per informazione: non è una pratica legale» osserva Seba, che è molto attento a queste cose.
«Davvero?» Luca sgrana gli occhi castani. «Strano, in Corea del Sud lo fanno tutti. In ogni caso ditemi di più della trama, c’è qualche aspetto che migliorereste? Vi sembra che Panda sia stata sufficientemente coinvolta? Gli oggetti di scena erano ben costruiti?»
Io e Seba ci lanciamo uno sguardo attraverso cui passano milioni di parole. Lui solleva le sopracciglia, invitandomi a rispondere per prima e io stringo le labbra per fargli capire che penso sia un codardo. Seba capisce, ma lo stesso non si espone.
E va bene, accidenti! Da dove posso cominciare? Ok, magari da qualcosa di gentile tipo… «Beh, dunque, i mobili del salotto erano carini e ben fatti, in perfetto stile ottocentesco. Il miglior oggetto di scena però è stata la porticina nel muro, non l’avevo notata fino a che il bambino non l’ha aperta. Anzi, a tal proposito, forse il bambino fantasma l’ho trovato un po’ strano… quella frase che ha pronunciato…»
«Norah, aspetta» mi interrompe Luca, perplesso. «Quale bambino?»
Ah ah, che burlone… «Quello che ha aperto la porta» spiego, sapendo che probabilmente sta per tendermi un tranello che farà sbellicare tutti dal ridere. «L’attore che interpreta Patrizio Rudezio-Veggese. Di chi si tratta? Un vostro nipote? Un cugino?»
«Ma…» appare davvero confuso. «La storia non è del tutto originale, se è questo che intendi. L’articolo di giornale è vero: villa Rudezio-Veggese è a circa un chilometro da qui, in mezzo al bosco, e uno dei piccoli di famiglia, Cornelio, scomparve senza lasciare traccia. Questo capannone, un tempo un fienile, era parte della proprietà originaria.»
Sì, ok, interessante, ma… «Parlavo del bambino, Luca. Quello che ci ha fornito l’ultimo indizio.»
«Intendi la fotografia?»
«No, il bambino, accidenti.» Mi sto irritando, perché va bene stare al gioco, ma questo è davvero troppo.
«Norah, lo giuro, mamma potrà confermarlo: non abbiamo assunto alcun bambino. Gli indizi sono quattro e l’ultimo è la fotografia.»
Scioccata, posso solo fissare l’espressione seria di Luca. Sembra sincero e ciò mi spinge a credergli, ma… se non è stato assunto alcun attore per interpretare Patrizio Rudezio-Veggese, il bambino che ci ha fornito l’indizio finale… chi era?
«Intendi la fotografia?»
«No, il bambino, accidenti.» Mi sto irritando, perché va bene stare al gioco, ma questo è davvero troppo.
«Norah, lo giuro, mamma potrà confermarlo: non abbiamo assunto alcun bambino. Gli indizi sono quattro e l’ultimo è la fotografia.»
Scioccata, posso solo fissare l’espressione seria di Luca. Sembra sincero e ciò mi spinge a credergli, ma… se non è stato assunto alcun attore per interpretare Patrizio Rudezio-Veggese, il bambino che ci ha fornito l’indizio finale… chi era?
E siamo giunti alla fine, cosa ne pensate?
Vi aspetto nei commenti
Copyright @ 2024 Norah Martini
Questo racconto è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono prodotto dell’immaginazione dell’autrice o se reali , sono utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti o persone viventi o scomparse è del tutto casuale.
Non era per niente facile rispettare tutte le indicazioni nella creazione della storia e all'inizio pensavo fossero troppi dettagli, ma devo farti i complimenti Norah mi è piaciuta molto. L'ho trovata carina, divertente e interessante nella parte mistery quando ragionano sugli indizi e nella parte sovrannaturale. Brava e ancora complimenti!
RispondiEliminaGrazie mille, Serena! 😍 sono felicissima che ti sia piaciuta! Mischiare tutti gli elementi è stato difficile, ma anche molto divertente! Avevo le lacrime agli occhi nello scrivere perché mi immaginavo la situazione 🤣 grazie davvero per avermi letta!!
RispondiEliminaQuesta storia è stata una bellissima sorpresa ma conoscendoti non poteva che essere così. Mi sono divertita tanto a leggerla perchè sei riuscita a catturare un momento reale, quotidiano per poi trasformarlo in qualcosa di misterioso con quel tocco di soprannaturale, bravissima ad aver inserito tutti quegli elementi con grande facilità e direi che è un bell'inizio per entrare a pieno titolo in questa rubrica
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