sabato 30 aprile 2022

Rubrica: Storytelling Chronicles: Salvala di Anne Louise Rachelle

Buon sabato amici lettori.
Oggi torna la bellissima Rubrica Storytelling Chronicles e torno a ospitare un'amica e autrice bravissima: Anne Louise Rachelle.



Storytelling Chronicles è una Rubrica a cadenza mensile ideata da Lara del blog  La Nicchia Letteraria in cui ogni mese i blog partecipanti scrivono un racconto su un tema scelto nel gruppo apposito. La grafica è invece a cura di Tania del blog My Crea Bookish Kingdom


Prima di leggere la sua ultima storia però vi lascio le sue parole:

Ciao a tutte, ragazze!
Torno a scrivere dopo un’eternità e sono contenta di farlo con un tema tanto stuzzicante.
Sono ormai un paio d’anni che non seguo serie tv al ritmo che vorrei, ma in questo periodo stavo facendo un rewatch di Manifest in attesa della stagione conclusiva, quindi sono stata felicissima di ambientare il racconto in quelle atmosfere e in quel genere: le adoro!
Inoltre, a sorpresa, troverete due personaggi già visti, anche se solo una volta, mi è sembrato giusto farvi scoprire come si sono conosciuti. E ora bando alle ciance e… buona lettura!

N.B.: Foto prelevate da Pexels, Pixabay, Unsplash.


SALVALA!


Ethan

«Salvala!»

Mi svegliai di soprassalto, il cuore batteva impazzito, la maglietta era appiccicata al torace tanto era madida, mentre tentavo di incamerare aria nei polmoni in sofferenza.
Non era stato un vero e proprio incubo, non ricordavo nulla, ma avevo avuto la sensazione come se una forza potente mi avesse scosso e costretto a svegliarmi, urlandomi direttamente nella testa.
Una sola parola: «Salvala!»
Un ordine più che una richiesta.
Tuttavia, non ero nuovo a risvegli tanto traumatici. Non avevo idea da dove o da chi provenissero questi input – anche se la voce che sentivo era sempre la mia – ma erano sempre perentori e dentro di me sapevo che non avrei potuto ignorarli neppure se lo avessi voluto. Era qualcosa che spingeva dentro, qualcosa che riconoscevo come parte di me: non è possibile mettere a tacere te stesso.
Una sola cosa era certa, questi strani eventi erano cominciati dopo essermi risvegliato da un coma profondo durato quattro mesi, causato da un bruttissimo incidente in moto. Un momento prima mi beavo del brivido che la velocità sapeva darmi, il momento dopo mi ero risvegliato su un letto di ospedale, circondato da una quantità esorbitante di macchinari e tubicini. Tra un momento e l’altro, però, erano trascorse intere settimane di incertezza, oblio, vuoto… ma anche di sogni, sensazioni, immagini.
Scossi la testa con insistenza, mentre con la maglietta tentavo di asciugarmi la fronte. Inutilmente, era fradicia. Mi alzai di scatto, ero preda di un’ansia che conoscevo bene. Dovevo seguire la voce, ma non avevo la più pallida idea da dove cominciare. L’ordine era sempre lapidario e poco comprensibile, almeno all’inizio.
Mi tolsi la maglietta e la infilai nel cestone dei panni sporchi. A piedi nudi, approfittando del pavimento riscaldato, mi avvicinai alla finestra per cercare di schiarirmi le idee: era appena l’alba, una sottile patina di ghiaccio ricopriva l’asfalto della strada poco distante, i lampioni ancora accesi, la cassettina della posta all’imbocco del vialetto che portava alla bifamiliare di cui occupavo la grande mansarda. Un ammasso di nuvole scure all’orizzonte prometteva solo pioggia a dirotto, in montagna di sicuro sarebbe nevicato. In montagna. Da dove era spuntato quel pensiero?
«Salvala!»
Eccola, la mia voce mi dava un segnale. Dovevo andare in montagna? Con quel dannato gelo artico? Io odiavo il freddo… lo dimostravano i 25 gradi che mi ostinavo a mantenere costanti in casa. Tuttavia, il dolore alla testa parve aumentare non appena formulai un simile dubbio…
«E va bene, ho capito, ci vado!» sibilai tra i denti. Ero contrariato, ma consapevole che fino a quando non avessi risolto quell’enigma non sarei stato in grado di fare nient’altro.
Mi strofinai la faccia con entrambe le mani e sbuffai sonoramente.
«Chiunque tu sia, resisti, perché sto facendo un enorme sacrificio!» Mi rivolsi alla fantomatica "lei" che aveva attirato la mia attenzione. Non sapevo chi fosse, poteva essere una ragazza, ma anche un’anziana o una bambina. Iniziai a rifletterci su, mentre mandavo all’aria la mia giornata di lavoro da casa, al calduccio, al mio pc, per infilarmi in chissà quale guaio. Sì, perché raramente questa voce mi lasciava prendere strade comode per seguirla, al contrario, quasi sempre c’era qualche regola da infrangere. Ogni volta era un enorme punto interrogativo. Questa volta non sarebbe stato diverso.

***


Avevo il naso congelato, l’unica parte del mio corpo visibile dall’esterno, libera dalla sciarpa e dal cappuccio, perché essenziale per respirare. Per nessun’altra ragione.
Camminavo cauto sul sentiero di terra battuta, ormai ricoperto interamente da uno strato bello spesso di neve. Come avevo previsto, in montagna nevicava. Che novità! Mi trovavo a Tannersville, in una delle diverse Contee di New York. Era un villaggio piuttosto piccolo ma nel centro si potevano trovare soluzioni per ogni esigenza. Io, però, non dovevo andare nel centro, la mia destinazione era tra gli alberi, nel folto del bosco di sempreverdi e piccole cascate.
Come lo sapevo? Appena avevo tentato di entrare in un’accogliente tavola calda, la voce mi aveva stordito col suo tassativo ordine, obbligandomi a rinunciare al camino acceso e a prendere un’altra strada… fino a portarmi dove mi trovavo in quell’esatto istante: in mezzo al nulla, le mani guantate infilate nel cappotto pesante, gli occhi lacrimosi a causa del ghiaccio e il naso appunto congelato.
Non avevo la più pallida idea di dove o cosa cercare. Una persona di sesso femminile, questa era l’unica certezza. Passo dopo passo, attendevo un segno che mi avrebbe guidato, ma adesso… tutto era silenzioso. Poteva significare che ero sul sentiero corretto… oppure…
«Salvala!»
La voce quasi mi distrusse il cervello, mentre il cuore prendeva a battere in maniera furiosa.
Non c’era più tempo. Dovevo darmi una mossa. Ma dove diavolo dovevo andare?
Mi fermai, presi a respirare piano, imponendo al sangue di pulsare meno velocemente contro le tempie. Dovevo sentire. Agitarmi non mi avrebbe aiutato nell’intento.
Tolsi la sciarpa dalla bocca per agevolarmi il compito e una marea di spilli parvero conficcarsi nel viso, ricoperto da una barba di un paio di giorni che mi ero rifiutato di tagliare anche quella mattina, forse un po’ per ripicca, forse perché pensavo che contro il freddo mi avrebbe aiutato: mi sbagliavo. Chiunque avesse bisogno del mio aiuto stava di certo per congelare. Un brivido di paura mi percorse la schiena, non ero pronto a perdere… non se si trattava di un’altra vita che dipendeva da me e da questa dannata voce che mi frullava in testa.


Mi guardai attorno. Aguzzai la vista e l’udito. Il bianco la faceva da padrone mentre il silenzio ovattato mi avvolgeva in spire per nulla piacevoli. Proprio un attimo prima che mi decidessi ad avanzare sul sentiero, percepii un rumore molto flebile di cui però non riuscii a intercettare la provenienza.
«Ehilà! C’è qualcuno?» urlai, spezzando la calma piatta di una nevicata fortunatamente ancora senza vento.
Il rumore parve farsi più intenso. Mi mossi verso destra, uscendo dal percorso segnato e inoltrandomi in una vegetazione non troppo fitta. Non capivo di cosa si trattasse, ma dovevo procedere, sapevo che era la direzione giusta, anche se pericolosa. La visibilità era molto ridotta e il terreno accidentato.
Eccolo di nuovo: qualcosa che graffiava contro la corteccia di un albero?
Mossi un passo più lungo e…
«Salvala!»
Per poco non rischiai di precipitare nel vuoto! Feci appena in tempo a spingermi all’indietro, una volta resomi conto che di fronte a me c’era un burrone. Respiravo a fatica per lo spavento, ma il peso dello zaino mi aveva salvato la vita, assieme ai miei riflessi. Il rumore adesso era fortissimo, quasi isterico.
«Ehi, rispondi!» Riuscii a dire non appena la gola smise di tremare. Che non si trattasse di una persona? Forse un animale in trappola? Non avevo altra scelta se non affacciarmi per scoprirlo… Quando lo feci, restai di stucco. Non si trattava di un animale. La paura si prese gioco di me, ma anche un fortissimo stupore. Come si era salvata?
Dalla parete di roccia, che finiva in un precipizio, spuntava un piccolo costone ricoperto di felci e neve. Quella minuscola sporgenza aveva salvato la vita di una ragazza che doveva essere caduta accidentalmente. Perché non parlava? Faceva dei gesti con le mani, era agitatissima e il viso era sporco di sangue. Non era un buon segno.
«Salvala!»
Di nuovo. L’avevo trovata, perché continuava a martellarmi in testa?
«Tranquilla, adesso…» Proprio mentre parlavo, una parte della neve che ricopriva lo spuntone di roccia cadde verso l’abisso e la ragazza rischiò di ruzzolare con essa. Lasciò andare l’oggetto che aveva in mano – era un cellulare? – e si aggrappò prontamente alle felci che spuntavano dalla parete.
Stava cedendo. Tutto quel miracoloso punto di appoggio stava per crollare.
Non c’era tempo da perdere. Ora avevo capito il pericolo.
Il terrore negli occhi della giovane mi fece venire un conato, stringendomi lo stomaco in una terribile morsa. 
«Va bene, Ethan, è il momento di darsi una mossa. Ringrazia le tue sessioni di arrampicata in palestra e ora cerca di metterle in pratica. Non hai alternative, né margine di errore» mi dissi ad alta voce, immaginando me stesso darmi una pacca di incoraggiamento sulla spalla.
Da quando mi ero risvegliato in quel dannato letto d’ospedale, avevo deciso di non lasciare più nessuna decisione al caso, diventando così più previdente che in passato. Dunque, prima di venire fin quassù, mi ero premunito di quanto sarebbe potuto tornare utile… In pochissimi minuti, che parvero durare una eternità, presi tutto l’occorrente dallo zaino e lo approntai per la discesa.
«Resisti, sto venendo a prenderti!» Assicurai tutti i moschettoni e iniziai a calarmi giù. Non la sentivo neppure piangere, perché non aveva urlato aiuto? Mi costrinsi a levarmi ogni altro pensiero dalla testa. Dovevo restare concentrato: scalare una parete rocciosa nel gelo pungente di una nevicata, per quanto poco violenta, era cosa ben diversa di una scalata su parete artificiale con un bel materassino a proteggere il tuo sedere in caso di caduta.
Con la coda dell’occhio, notai che la ragazza si era issata sulle braccia e nel vuoto pendevano solo gli scarponcini. Lo spazio sullo spuntone si era drasticamente ridotto, la base doveva essere esigua e prima o poi la vegetazione a cui era aggrappata avrebbe ceduto.
Pensai solo a questo quando i miei stivaletti toccarono terra. Dovevo essere cauto per evitare altri smottamenti.

«Eccomi. Dammi la mano adesso, ti tengo stretta, promesso.» Eravamo molto vicini, ma lei avrebbe dovuto mollare un punto di appoggio per aggrapparsi al mio braccio. Alzò lo sguardo per guardarmi e la sua determinazione mi fece quasi vacillare. Poi, un lampo mi attraversò la mente: occhi grandi e scuri, ciglia lunghe, un sorriso raggiante. Conoscevo quella ragazza, ma non riuscivo a collocarla nella mia memoria. Il sangue che le copriva una parte del viso non era affatto di aiuto. Per fortuna, mi accorsi del cenno di assenso che mi fece prima di tendermi il braccio che io afferrai con forza. 
«Presa!» Puntai i piedi contro la base del costone roccioso e la tirai verso di me. Sentii il bicipite gonfiarsi e i tendini della spalla bruciare, mentre lei scalpitava con le gambe per trovare un punto di appoggio e raggiungermi. Dopo attimi interminabili, me la ritrovai praticamente abbarbicata addosso, mentre la neve residua crollava dabbasso, rivelando una piccolissima porzione di roccia.
Come diavolo aveva fatto a frenare la sua caduta? Questo era del tutto inspiegabile.
Assicurai l’altra fune alla sua vita, chiudendo il moschettone di sicurezza, solo allora mi resi conto che il suo cuore stava battendo impazzito contro il mio braccio. Allora la guardai, facendole un sorriso di quelli che avrebbero potuto illuminare qualsiasi tempesta. Lei sgranò gli occhi, quasi fosse sorpresa di vedermi, per poi fissarmi pensierosa.
«Adesso saliamo, tu hai esperienza di arrampicata?» chiesi con voce dolce, stranamente bassa. Non sapevo perché avessi deciso di sussurrare, ma avevo la sensazione che fosse sufficiente…
Lei, ancora una volta, non rispose con le parole, ma scosse forte la testa in segno di diniego. Poi si indicò la gola e fece una strana smorfia, che doveva indicare un caput piuttosto simpatico.
Che idiota! Non poteva parlare, ecco perché non l’aveva fatto per chiedere aiuto. Adesso collegavo tutti i dettagli: per attirare l’attenzione aveva sfracellato il suo smartphone sulla corteccia di un albero appeso nel nulla. Non c’era campo, non poteva chiamare i soccorsi, la curiosità di capire come diavolo fosse finità quaggiù era fortissima, ma la priorità era quella di metterla definitivamente in salvo. La voce sembrava d’accordo visto che aveva smesso di torturarmi.
«Va bene, ti dico io dove mettere i piedi. Un passo per volta. Non hai niente di rotto, giusto?»
Lei parve fare un piccolo recap, per capire se sentisse dolore da qualche parte, ma poi indicò solo un brutto taglio tra il sopracciglio e l’attaccatura dei capelli, coperta da un cappellino di lana ormai madido di sangue. Quella buffa espressione sul viso, tra il pensoso e il concentrato, mi era così familiare, ma ancora una volta non riuscii a darle un posto in una scena precisa.
«Appena risaliti, ti porterò in ospedale... andiamo.»
Col piccolo pollice guantato mi diede l’ok e iniziò l’ascesa.

***


«Ti dovrei portare subito in ospedale, potresti avere una commozione cerebrale, non vorrai vanificare il miracolo che hai vissuto, vero?»
Lei sbuffò con leggerezza, cercava di tranquillizzarmi da dieci minuti buoni, ma non stava avendo molto successo. La parte superiore del suo viso stava diventando livido, ma non sembrava avere segni di ipotermia. Nonostante fossi curioso di sapere che cosa le fosse capitato, la preoccupazione per la sua salute superava ogni indugio… invece, lei aveva voluto rifugiarsi nella tavola calda che mi era stata negata dalla voce all’andata. La voce. Taceva, doveva essere un buon segno.
Riuscii a convincerla a farsi medicare la ferita e questo mi rasserenò un altro po’, non era molto profonda e appariva più brutta di quanto fosse in realtà. Intanto la ragazza attendeva la sua cioccolata bollente con panna montata e io il mio caffè nero, ne avevamo proprio bisogno.
Solo dopo che le ordinazioni furono portate al nostro tavolo e lei ebbe mandato giù buona parte della dolce bevanda, si munì di blocchetto e penna, chiesti gentilmente alla cameriera.
La vidi sospirare prima di iniziare a scrivere. Si era tolta i guanti e le dita affusolate apparvero, anche se escoriate in più punti. Dopo un minuto buono, mi passò il blocchetto, i suoi occhi erano lucidi, il sorriso aperto, le mani strette alla penna.
"Grazie. Mi hai salvata. Non so come hai fatto a trovarmi.
Non riesco a trovare le parole per esprimere come mi sento.
Perciò, per adesso, solo grazie.
Ah. Sono Nayeli, piacere. Non puoi ricordare, ma… ci siamo già conosciuti.
Io mi ricordo di te."
Lessi avidamente, alzando lo sguardo su di lei a ogni frase. Alla fine, però, tenni i miei occhi sgranati sul suo volto: ecco perché sul costone mi aveva guardato con sorpresa. Io, dal mio canto, sapevo di averla già vista! Il nome non mi diceva proprio nulla, il dove era ancor più un mistero.
«Come sono riuscito a trovarti è davvero un miracolo, piuttosto perché non mi dici dove ci siamo conosciuti? Da quando ti ho vista, non riesco a pensare ad altro.» Mi ero sporto sul tavolino, molto più vicino a lei. Me ne accorsi solo quando Nayeli prese dalle mie mani il blocchetto, sfiorandomi le dita con le sue. Raddrizzai la schiena e mi esibii in una risatina nervosa. Mi stavo facendo coinvolgere un po’ troppo? Perché la voce mi aveva portato qui, di fronte a lei? Era questa la vera domanda.
Scrisse ancora per un altro minuto buono, sembrava scegliere con cura le parole.
"Fine estate scorsa. Stavo tornando a casa, sul ciglio della strada ho trovato te… la tua moto era a diverse centinaia di metri, distrutta. Ero convinta di trovarti morto, il tuo casco era a pezzi. Però respiravi ancora. Ho chiamato i soccorsi e ho aspettato con te fin quando non sono arrivati.
In realtà non so come tu possa riconoscermi, sei sempre stato privo di sensi.”
Ero scioccato. Sì, decisamente scioccato. Eppure, il suo volto diventava sempre più chiaro nella mia mente, come un ricordo fumoso che piano piano prende contorni definiti. I suoi lineamenti erano molto particolari, non avrei potuto dimenticarli. E se l’avessi sognata? Anche in quel caso, però, il tutto aveva dello straordinario.
«Vuoi dirmi che, di fatto, ci siamo salvati la vita a vicenda?»
Nayeli sorrise di nuovo, facendo segno di sì, prima di stringersi nelle spalle. Era assurdo.
«Ma tu cosa ci facevi in quel burrone durante una bella nevicata?»
Mi fissò intensamente, pareva avere anche lei una domanda per me. Si riprese il blocchetto e mi lasciò in trepida attesa per un altro paio di minuti.
"Quando devo scrivere un romanzo, mi piace fare ricerche… sul campo. Ecco perché la passeggiata nel bosco mentre nevicava. Mi piace vivere, nel limite del possibile, ciò che faccio vivere ai miei personaggi… certo, non pensavo che sarei finita in qualche guaio… un incidente per salvare una volpina che rischiava di cadere, invece sono caduta io. Lo zainetto che avevo mi ha fatto perdere l’equilibrio. Per fortuna, sono riuscita a sfilarlo, altrimenti sarei finita come una bella frittatina a fondo valle…
Ma la vera domanda è: cosa ci facevi proprio TU su quel sentiero?"


Mi grattai la nuca, di nuovo nervoso, togliendo il cappello di lana e passando le dita tra i capelli più lunghi sulla sommità. Non era facile da spiegare, ma lei non mi mollava un attimo seguendo ogni mio gesto.
«Stamattina mi sono svegliato all’alba e ho sentito il bisogno di salire fin quassù. Qualcosa mi ha spinto a venire qui. Forse era semplicemente destino che ricambiassi il favore!» le feci un piccolo occhiolino per spezzare il disagio che tentava di bloccarmi. Ma lei restò seria, prima di scrivere qualche altra parola.
“Qualcosa o qualcuno? La tua voce?”
Nel vedermi di nuovo a occhi sgranati, come un bambino beccato con le mani nella marmellata, continuò a scrivere subito dopo.
“La mia voce, il giorno del tuo incidente, mi ha detto di prendere una strada secondaria che faccio raramente. Lì ti ho trovato.”
Mi resi conto che stavo scuotendo il capo, incredulo, mentre leggevo quelle parole pazzesche.
«Anche tu? Da quando?»
“Da che ho memoria…”
Nayeli sospirò, come me, aveva le idee un po’ più chiare anche se non del tutto.
“Come fai a ricordare il mio viso?”
«Come fanno le voci a parlarci e a dirci cosa fare?» ribattei, evidenziando ancora una volta la sincronicità e l’originalità del tutto.
Lei si prese la testa tra le mani, massaggiandosi le tempie per qualche istante, attenta però a non toccare il cerotto. Sembrava che la stanchezza le fosse caduta sulle spalle all’improvviso come un macigno.
«Avremo tempo di riparlarne, dai. Adesso ti concedo un’altra cioccolata bollente e poi ti porto in ospedale per un controllo. Solo allora sarò davvero tranquillo.» Le diedi un buffetto dolce sulle mani chiuse in un’unica morsa, lei allora afferrò le mie dita e le strinse forte. Mi fissò negli occhi prima di mimare con le labbra un «Grazie» emozionato.
Accarezzai le piccole ferite sulla sua pelle ambrata, l’istinto di baciarle fu fortissimo ma mi trattenni.
«Il grazie è reciproco, ricordi? Ecco perché ci hanno fatto ritrovare. Avevamo un conto in sospeso.» Era così chiaro adesso. Nayeli annuì e baciò le mie mani, con una delicatezza che non credevo possibile. Pareva leggermi nel pensiero, ma non mi metteva più a disagio. Era diventato naturale come viaggiare nel medesimo flusso di frequenze…
Non avevo idea che quella particolare chiamata, quella parete rocciosa, quella ragazza, avrebbero segnato l’ennesimo giro di boa della mia intera esistenza. Non potevo sapere ancora che lei sarebbe diventata la mia stella polare. Ma lo avrei scoperto…

                                 

Siamo giunti alla fine, cosa ne pensate?
Vi aspetto nei commenti

                                  

Copyright @ 2022 Anne Louise Rachelle

Questo racconto è un’opera di fantasia . Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono prodotto dell’immaginazione dell’autrice o se reali , sono utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti o persone viventi o scomparse è del tutto casuale.

 

 

 

 

 




2 commenti:

  1. Manifest devo continuare, mi sono fermata al momento. E' una serie molto particolare che tu sei riuscita a inquadrare perfettamente dando quel tocco di mistero che non doveva mancare stavolta perchè è proprio il fulcro di tutto. Si è respirata per tutto il tempo quel tipo di angoscia che in realtà io ho percepito durante la visione degli episodi. Sei tornata con un genere che si vede ti piace e hai fatto benissimo cogliendo la palla al balzo della tematica di Lara. A me non fa impazzire totalmente perchè è troppo psicologa per i miei gusti ahah ma brava perchè si era sentita la tua mancanza

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  2. Ciao Anne Louise! Sono super contenta che tu sia tornata! Non conosco Manifest, ma devo dire che queste atmosfere invernali ci vogliono nel bel mezzo di questa serata torrida, ahah! Hai creato un gran bel racconto, con un tocco di mystery che lascia spazio alla fantasia. Mi piacerebbe scoprire che cosa succederà a questi due personaggi. Scriverai ancora di loro? Spero proprio di sì! Brava, alla prossima!

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